Insulto alla civiltà

 

A cura di Dante Balbo

 


Il dibattito sull’eutanasia, cioè sulla possibilità di rendere legale la pratica di suicidio assistito o di alleviamento delle sofferenze quando sono soggettivamente intollerabili, di tanto in tanto si riaccende, scandito dalle inesorabili conquiste di questo o quel governo illuminato che finalmente propone o legalizza questo modo di risolvere la fine della vita.

E’ solo una questione di tempi, ma nel paradosso di questa società occidentale, che sempre più spesso chiama progresso quello che un tempo per la maggioranza era detto peccato, non possiamo illuderci di modificare l’orientamento culturale dominante.

Nella complessità di questo tempo, c’è ancora spazio, se non per stravolgere il corso della storia, almeno per esprimere un’altra cultura della vita e della nostra umanità.

E’ quanto abbiamo cercato di fare con i nostri tre ospiti: un medico, un’infermiera, un parroco, che con il dolore hanno familiarità e che non hanno paura di guardare in faccia la morte, senza banalizzarne la drammaticità, ma accogliendone la ricchezza umana che la faceva chiamare “sora nostra morte corporale” da san Francesco.

L’occasione è un’intervista con il dottor Franco Tanzi, la signora Marija Kralic e don Giuseppe Bentivoglio, trasmessa nella puntata di Caritas Insieme Tv il 9 dicembre 2000. Le riproponiamo qui di seguito.

 

Dott. Franco Tanzi

“La parola eutanasia di fatto è molto vecchia, ha più di 400 anni. Ma fino all’inizio di questo secolo è stata utilizzata proprio per indicare tutto quanto serviva per accompagnare ad una buona morte chi, di fatto, soffriva ed aveva bisogno d’alleggerimento, d’accompagnamento e di cure. Solo all’inizio del secolo ha cominciato ad avere una connotazione ambigua, da una parte continuando ad avere questo significato, dall’altra assumendo anche il senso di soppressione voluta di persone che soffrono di malattie incurabili e che, proprio per le effettive sofferenze, è una morte voluta per pietismo.

Questa è la forma di cosiddetta eutanasia attiva, che si differenzia da quella passiva, nella quale si attua la sospensione delle cure in presenza di una malattia terminale.”

 

Questa la definizione tecnica di eutanasia, vista da un medico di lunga esperienza con pazienti anziani. Vediamo invece come la stessa questione è affrontata in un reparto di cure intense con la capo infermiera all’ospedale Civico.

 

 

Marija Kralijc

Tre sono le situazioni che coinvolgono il reparto rispetto alla morte: lo stato di morte cerebrale, l’accanimento terapeutico e la decisione di astensione dalle cure.

L’evidenza della morte è difficile da spiegare ad un famigliare che osserva il paziente, lo tocca, lo sente caldo, lo vede colorito, ne percepisce il respiro, anche se artificiale. Non è possibile che questo sia solo un corpo senza cervello, mantenuto in vita dalle macchine.

L’impatto emotivo di un corpo apparentemente vivo, in cui reni e polso funzionano, che sembra realmente addormentato, è incredibile, tanto che è uno dei problemi più sentiti anche dal personale curante e non solo dai famigliari.

In altri reparti dove vi sono pazienti terminali il problema della richiesta di eutanasia attiva è forse più sentito, ma da noi non è così. E’ straordinaria la capacità di tolleranza di situazioni disperate, in cui la speranza non è abbandonata. La malattia ha le sue fasi, il rifiuto, la ribellione, lo sconforto, l’accetazione, ma ha bisogno di tempi lunghi per essere elaborata.

In cure intense non c’è il tempo, raramente anzi praticamente mai ci viene detto da un famigliare che preferirebbe vedere il suo congiunto morto, piuttosto che in questo stato.

Un altro problema è l’accanimento terapeutico e la decisione di astensione dalle cure. Teoricamente i parametri ci sono, perché sappiamo quando una malattia è irreversibile o quando ogni intervento non è più curativo, ma da una parte non è una pratica giornaliera dover decidere queste cose, dall’altra la tecnica medica è così avanzata che nemmeno un curante può con semplicità tracciare un confine e dire basta. Una volta iniziato un trattamento non è così semplice sospenderlo, o decidere di arrendersi quando si hanno a disposizione strumenti e tecniche in grado di prolungare la vita del paziente.

D’altronde non sarebbe possibile né giusto standardizzare decisioni come queste, ogni caso è una storia, ogni storia è unica e ogni decisione è in qualche modo irripetibile.

Dott. Fraco Tanzi

La morte cerebrale non è un problema medico, ma una questione soprattutto psicologica, per l’impatto emotivo sui famigliari e per il carico di lavoro per l’equipe curante che deve aiutare i parenti ad elaborare il lutto di un famigliare che effettivamente è defunto.

In questo caso non è un problema di eutanasia ma si lega ad un’altra possibilità offerta dalla medicina, la donazione di organi, di cui il corpo del defunto è portatore.

 

A proposito di accanimento terapeutico, devo dire che la medicina ha fatto notevoli passi avanti da dieci o vent’anni fa, quando l’euforia tecnica spingeva a trattamenti estremi. Ora infatti sono molto più prudenti anche i medici nel attuare quelle cure che non siano realmente necessarie, anche se il confine con l’accanimento è sempre difficile da trovare.

Qualche anno fa per tutelarsi, soprattutto da oltralpe avevamo avuto anche situazioni in cui il paziente presentava un certificato o passaporto dell’associazione Exit, in cui rifiutava qualsiasi intervento curativo e di rianimazione.

In realtà l’esperienza mi fa dire che, quando è possibile, è sempre meglio poter discutere con il paziente o con i famigliari e si arriva tranquillamente ad un accordo su ciò che è necessario ancora tentare e ciò che invece è inutile.

In caso comunque che il paziente o non possa esprimersi o non abbia famigliari a sostenerlo, esistono certificati come quello dell’associazione medica Svizzera FMH e di Caritas Svizzera, che a mio giudizio sono più rispettosi della persona e scritti in modo più chiaro e se proprio bisogna ricorrere ad un simile strumento, li consiglio.

 

Eutanasia dunque è sempre più una questione etica, di valori dei curanti e dei pazienti, e, in definitiva, dell’intera società. La Chiesa si ostina a difendere la vita contro il desiderio di persone, magari molto anziane, di porre fine alle loro sofferenze. Abbiamo girato la domanda a don Giuseppe Bentivoglio, presidente di Caritas Ticino e parroco.

 

Don Giuseppe Bentivoglio

Per rispondere a questa domanda, bisogna ricordare che la vita è data e questa non è una scelta che appartiene al mondo della religione, ma è un’evidenza che non possiamo accantonare. Se la vita ci è data, se la realtà ci è data, vuol dire che evidentemente ha in sé una vocazione, un significato che dobbiamo comunque sempre individuare e cercare. Allora non possiamo appropriarci di essa a nostro piacimento, interrompendola quando meglio pensiamo e crediamo. Tutto quello che ci è dato ha appunto una sua intrinseca positività, per cui anche la vita se si prolunga nel tempo e conosce fatiche, dolori e sofferenze comunque deve essere rispettata e accolta appunto perché è data. Se facciamo passare questa idea che l’uomo in un modo o nell’altro, con motivazioni diverse che possono cambiare nel tempo può impossessarsi secondo le sue misure, secondo le sue opinioni, della vita, arriviamo a momenti in cui le conseguenze di questa pretesa saranno veramente drammatiche.

 

La Chiesa non è che decide, vuole o desidera che le persone soffrano. Evidentemente la vita ci fa soffrire, nel senso che ci sono situazioni, circostanze in cui la fatica e il dolore sono quelli che sono. Tutti ne facciamo esperienza, non bisogna solo pensare alla morte, e a ciò che la precede. Nella vita comune ci sono persone che sono segnate da fatiche, dolori e sofferenze e la Chiesa dice che anche queste cose che immediatamente sembrano non avere alcun senso, comunque appartengono al mistero della vita personale e hanno una loro positività, hanno anche solo una loro capacità educativa. Quindi il fatto che la Chiesa tenga conto anche di questi aspetti della vita, dice la sua sapienza, perché in fondo non afferma mai che nella esistenza vi sono cose assolutamente irrecuperabili dal punto di vista della loro positività. Anche la sofferenza e il dolore hanno una loro funzione dentro il cammino dell’uomo.

 

La persona comunque mantiene una sua dignità indipendentemente dal fatto che si trovi in una condizione normale o no, al di là poi del dibattito sul concetto di normalità.

Certo è anche che la Chiesa non ha mai sostenuto l’utilità dell’accanimento terapeutico, laddove vi sia una situazione irreversibile, né che non si debbano usare trattamenti palliativi per lenire le sofferenze inutili.

 

Se la posizione della chiesa è chiara, non è scontato che sia condivisa proprio in campo medico, dove ad esempio già nel 1903 si parlava di buona morte nel senso di eutanasia attiva o nel 1973 si pubblicava un manifesto firmato da premi Nobel per la difesa del diritto di morire quando si voleva.

Come si spiega questa contraddizione fra coloro che la vita dovrebbero difendere per mandato?

 

Dott. Franco Tanzi

Queste scelte etiche diverse si rifanno a delle antropologie, ed è chiaro che qui abbiamo a che fare con due antropologie diverse. L’una che pensa che l’uomo sia riducibile alla sua sola dimensione biologica e quindi tutto quello che è sperimentabile, misurabile, osservabile in termini scientifici sia valido e tutto il resto sia frutto della fantasia o rispettivamente dei miti che ognuno si porta dentro.

L’altra antropologia, che non è solo un’antropologia religiosa ma anche laica, va al di là, ritenendo che la persona sia fatta ben di più di quello che è la sua biologia e il corpo. Da queste due antropologie si possono derivare scelte etiche differenti. Una che è quella di poter disporre della vita.

Oggi si parla sempre di qualità della vita, nel senso di possibilità di disporne, di efficienza, di bellezza, più in generale di uso.

L’altra invece è la scelta di considerare la vita come un dato, come un servizio, come un dono da scopertine/coprire insieme, per quello che è, così come è, nella sua ricchezza e nella sua fatica.

 

Noi parliamo spesso con i pazienti di quello che è la loro malattia, di quello che comporta, della loro sofferenza. Il nostro imperativo ultimo, è quello di attenuare questa sofferenza. Sia detto molto chiaro che noi ricerchiamo il benessere, vogliamo far stare bene la persona per cui noi il dolore lo dobbiamo attenuare se non cancellare quando è possibile. E questo, anche a costo magari di sacrificare un po’ la vigilanza, cioè lo stato di lucidità mentale. D’altra parte la natura stessa prevede che per il bene della persona uno dorma di notte. Anche lì la vigilanza non c’è, la lucidità non c’é. Per cui nulla ci impedisce pur di fare il bene della persona, rispettivamente di attenuare le sofferenze, di magari ridurre lo stato di coscienza, utilizzando farmaci analgesici che hanno anche effetti sedativi in senso più lato.